A volte essere campione non basta
Non bastano le supercopertine, non basta il gel, la pettinatura alla moda, il conto in banca che potrà pagare ogni vizio e capriccio anche per le generazioni future, perché vincere l’Europeo o la Coppa America è stata una cosa da gruppo. È vero alla fine a Parigi il trionfo ha indossato il rosso verde del Portogallo, ma mai come in questo caso non c’è lo zampino di CR7.
Braccato sin dall’inizio, azzoppato prima, senza sanzione per Payet, mandato ko poi, il fuoriclasse del Real Madrid ha inciso più con lo spirito e la voglia di rivalsa dei suoi compagni che in campo.
Il Portogallo ed il Cile sono giunte ad alzare le rispettive coppe con un cammino di sacrificio, garra ed un pizzico di fortuna. Messi è rimasto in lacrime, CR7 col sorriso. Non smorzato, perché il ko tecnico non era previsto.
Eppure nella sola manifestazione Continentale francese non hanno spiccato i campioni, ma i gruppi.
Non il Belgio costruito in Academy, non la Germania che arriva sempre, non l’Inghilterra della ricchissima Premier, né la Spagna della munifica Liga.
L’Italia di sacrificio e sudore specchio della voglia operaia di emergere si ferma ai quarti, ma in tanti la davano out al girone.
La sorpresa? In assoluta una: l’Islanda. La vera forza di un gruppo cresciuto a vulcani e stoccafisso. Terme sparse per l’isola ed un modo di festeggiare unico.
Una squadra, una Nazione, un popolo intero che ha gioito anche quando la Francia ha calato il pokerissimo.
La mezza sorpresa? Il Galles. Mister 120milioni, all’anagrafe Gareth Bale, ha punto sino ai quarti, poi squalifiche e consistenza dell’avversario hanno fatto il resto.
Rimane un interrogativo. Quanto serve essere campioni per vincere una manifestazione?
Serve come base, ma c’è bisogno dell’alchimia giusta. Un mix di compattezza, senso di appartenenza e gruppo da miscelare con cura.
Le valutazioni in euro? Possono essere lasciate tranquillamente ai procuratori, perché a parlare è sempre il rettangolo verde.
Un rettangolo verde che ha sorriso a CR7, ma in veste di “tecnico” e non di calciatore. Il suo essere lì, zoppo a fianco dei compagni ha fatto lievitare a mille la voglia di farcela e ha inciso nella storia il nome di Eder. Un centravanti di fatica che porta a Lisbona il primo trofeo calcistico internazionale per nazioni.
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